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Crisi del credito: Borse, Governi e Banche centrali
 
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di Orazio Carabini

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5 Novembre 2008

In Borsa ieri si è celebrata la giornata dell'orgoglio bancario, con rialzi da capogiro. Che, paradossalmente, alimentano la confusione.
Le banche hanno davvero bisogno di fondi pubblici? Probabilmente no. Ma se quei soldi servono a evitare la stretta creditizia possono essere ben spesi.

I banchieri italiani non perdono occasione per ribadire che i loro istituti sono più solidi dei concorrenti esteri. Il mercato sembra dar loro credito, almeno a fasi alterne: nei momenti di panico vende i titoli bancari italiani esattamente come quelli degli altri Paesi, ma nei momenti di maggiore razionalità mostra di apprezzarli.
Il Governo ha già approvato due decreti. Con il primo ha stabilito che nessuna banca può fallire, che lo Stato è pronto eventualmente a intervenire con fondi pubblici e che i depositi dei risparmiatori saranno tutelati. Con il secondo ha concesso la garanzia pubblica alle emissioni delle banche e ha introdotto la possibilità di operazioni di scambio tra titoli di Stato e titoli detenuti dalle banche. Adesso studia una fase tre (un altro decreto? un correttivo al primo?) «per lasciare aperto un canale di credito alle imprese», come ha detto ieri il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Che, insieme alla Banca d'Italia, sta studiando il meccanismo migliore per conseguire questo risultato.
I banchieri si erano spaventati nei momenti più cupi della crisi, intorno a metà ottobre, quando hanno temuto di non riuscire a far fronte ad alcune scadenze di rimborso di raccolta estera previste per fine anno.
Passata la buriana, è passata anche la paura. E i banchieri hanno tirato un bel sospiro di sollievo perché ricorrere alla procedura del primo decreto significa: ricapitalizzazione con fondi pubblici a fronte di azioni privilegiate nel dividendo e con diritto di voto, cambio del management, approvazione di un piano di stabilizzazione, limiti alla distribuzione di dividendi. Nessuna banca, dunque, è sull'orlo del baratro, come invece erano, per esempio, la Royal Bank of Scotland in Gran Bretagna, la Dexia in Belgio o la Commerzbank in Germania prima di ricevere i soldi dallo Stato.
I banchieri però fanno sapere che "un aiutino" per aggiustare i ratios patrimoniali non guasterebbe purché a condizioni di mercato. Addirittura al Montepaschi (si veda l'articolo di Cesare Peruzzi sul Sole 24 Ore di domenica) la stampella pubblica farebbe comodo per rinviare una cessione di sportelli che in questo momento penalizzerebbe chi vende. E gli analisti danno una mano, lanciandosi in stime del fabbisogno di capitale per riportare il core Tier-1 delle banche quotate ai livelli dei concorrenti esteri che sono risaliti grazie agli aiuti pubblici.
Il ministero dell'Economia e la Banca d'Italia si arrovellano: le banche hanno davvero bisogno di una ricapitalizzazione con fondi pubblici? In che forma? A quali condizioni? E se ne hanno bisogno, a che cosa deve servire? La sola risposta sensata sarebbe: a evitare la stretta creditizia, ora che la crisi ha raggiunto l'economia reale. Ma allora il meccanismo va ben congegnato.
Se un'impresa non è in grado di restituire i soldi alla banca che glieli ha prestati, fallisce. L'impresa, fallendo, "si mangia" una porzione del capitale della banca. Molte imprese, soprattutto piccole, in queste fasi di congiuntura negativa falliscono perché non riescono a superare difficoltà finanziarie più che industriali. Se si trova un modo per aiutarle a ristrutturare il debito e a non andare in "sofferenza", si dà un sostegno prima di tutto al sistema economico, poi, indirettamente, anche alle banche. È una possibilità. In Francia Nicolas Sarkozy ha preferito imporre un obbligo di crescita degli impieghi verso imprese e famiglie del 4% alle banche che hanno ricevuto capitali pubblici. È un'alternativa.
Quello che non sembra molto utile è mischiare due problemi: l'assetto proprietario della Banca d'Italia e la solidità patrimoniale delle banche. Può sembrare un modo brillante per prendere due piccioni con una fava ma far comprare da Via Nazionale le proprie azioni con l'obiettivo di portare mezzi freschi alle banche rischia di rivelarsi un grosso pasticcio. I cui costi, anche in termini di equilibri istituzionali, superano ampiamente i benefici.

orazio.carabini@ilsole24ore.com

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